Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Erano decenni che un film di Woody Allen non funzionava tanto bene sul mercato americano. Midnight in Paris, presentato a maggio come pellicola di apertura al Festival di Cannes e uscito subito dopo nelle sale statunitensi, ha costretto i distributori ad aumentare il numero di copie dopo il primo weekend di programmazione, tanto era alta la richiesta da parte del pubblico di vedere il film. Sarà stato felice, il settantacinquenne Woody, di aver ritrovato il feeling che ormai pensava perduto con gli spettatori del suo paese, gli stessi che dagli anni Ottanta hanno iniziato a disertare i suoi lavori giudicandoli troppo europei e con eccessive ambizioni autoriali. Di fatto Midnight in Paris, oltre ad essere una vera e propria dichiarazione d’amore per Parigi, è un ritorno al cinema più sognante e surreale di Allen. Languido e trasognato, caratterizzato com’è da quella vena di nostalgia e di insoddisfazione nei confronti dell’attuale perido storico di cui soffre il suo nuovo alter ego Owen Wilson.
Gil Pender (un incredibile Owen Wilson), sceneggiatore insoddisfatto che sogna un futuro da romanziere, giunge a Parigi insieme alla sua promessa sposa Inez (Rachel McAdams) ed ai futuri suoceri (Mimi Kennedy e Kurt Fuller). Tutto sembra procedere normalmente finché una notte, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, Gil inizia a vagabondare tra i vicoli parigini. Quando le campane di una chiesa scandiscono la mezzanotte una Peugeot degli anni Venti si ferma per dargli un passaggio e per condurlo nel mondo che ha sempre sognato. Gil soffre di quella che il “pedante” amico di Inez, Paul (personaggio interpretato da uno spocchioso Michael Sheen, perfettamente in parte), definisce come la Golden Age Syndrome: ossia l’incapacità di sentirsi adeguati nell’epoca in cui si vive, essendo convinti che in altri tempi la propria vita sarebbe stata sicuramente migliore. Per Gil la golden age è rappresentata dagli anni Venti del secolo scorso, la Parigi del Charleston, di Francis Scott e di Ella Fitzgerald, di Gertrude Stein (divina Kathy Bates), di Cole Porter, di un giovanissimo Buñuel, cui si permette di dare qualche consiglio, e dell’affascinante Adriana (Marion Cotillard).
Difficile pensare al biondo e affascinante Owen Wilson come ennesimo alter ego alleniano, eppure sovrapporre l’attore al regista è un processo che avviene con una naturalezza sorprendente. In un continuo alternarsi di sogno e realtà, il quarantunesimo film dell’autore newyorkese vanta diversi punti di forza. Dal cast, armonioso e azzeccatissimo (persino la tanto chiacchierata partecipazione di Carla Bruni Sarkozy passa quasi inosservata, tanto si è rapiti dalla storia e dai suoi personaggi), al non capire mai fino in fondo se quello che stiamo guardando sia reale o immaginario perché di fatto non ha alcuna importanza, passando per l’odore dell’assenzio, delle pelli di animali esotici che campeggiavano nei salotti della Ville-Lumiére così com’era in voga negli anni Venti e al solletico che le bollicine di champagne lasciano in bocca. Sono tutte sensazioni che Allen ci fa vivere in prima persona, prendendoci per mano e aprendoci le porte del suo mondo bizzarro.
Midnight in Paris è forse il più autoreferenziale dei suoi film, quello in cui il regista riesce a citarsi addosso come non aveva ancora mai fatto. E probabilmente questa storia l’ha già girata, con personaggi diversi e in luoghi diversi. Forse Gil Pender non è altri che la sognante Cecilia che ne La rosa purpurea del Cairo si innamorava del protagonista di un film, oppure l’impacciato Allan Felix, vittima delle apparizioni di Bogart in Provaci ancora, Sam. Definibile di fatto come una commedia colta, ricca di riferimenti letterari, cinematografici e artistici in genere, Midnight in Paris ha però il pregio di non sfociare mai nel mero intellettualismo, grazie alla leggerezza e impalpabilità che Allen gli conferisce scena dopo scena. Ciò non gli toglie quell’aura di rassicurante snobismo e ricercatezza che siamo abituati a vedere nei film del regista, esonerandolo dall’essere definito “film per tutti” (spesso sinonimo di “film per nessuno in particolare”). Meglio così.
Voto 9
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Allen e la sua dichiarazione d’amore alla Ville-Lumière, in questa fiaba d’altri tempi magica e incantevole.
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